Carrara: capitale del marmo o marmo del capitale?

di ImpeRiot e stevo

 

Il 28 novembre le Alpi Apuane si macchiano di sangue. Ancora una volta. A subire la tragedia è Mauro Giannetti, un operaio di 46 anni morto schiacciato sotto un blocco di marmo di 2 tonnellate staccatosi durante le operazioni di disarmo nel bacino di Torano (Carrara).
Pochi mesi prima, il 9 maggio, Carlo Morelli muore in segheria sotto un pezzo di marmo. Era appena stato assunto con un contratto di un anno e mezzo e la promessa di successiva riassunzione a tempo indeterminato, all’età di 61 anni, età limite per il lavoro in cava. Ad aprile nella cava Antonioli duemila tonnellate di marmo si staccano uccidendo Roberto Ricci e Federico Benedetti, un terzo viene colpito da malore. Dicembre 2015, Stefano Mallegni.
Novembre 2015, Nicola Mazzuchelli. Agosto 2015, Bruno Maggiani. In un anno dieci vittime nelle montagne apuane. A cui si aggiunge un incidente ogni due giorni lavorativi (Asl).
La crescente frequenza con cui negli ultimi mesi si verificano incidenti mortali in cava non è casuale, ma è dovuta all’estrazione ancora più intensiva di marmo nelle Apuane. Questa ulteriore accellerazione è legata alla volontà dei padroni del lapideo di accumulare blocchi e detriti di marmo in vista dell’attuazione della
legge regionale 35/2015 (la quale prevede l’imposizione di limiti estrattivi più stringenti, ma comunque non sufficienti a ridimensionare l’impatto dell’estrazione nel territorio).

Per aggirare il rischio di un rallentamento della produzione, le imprese del lapideo hanno dunque accelerato i ritmi di estrazione per creare depositi di marmo, fonte sicura di profitto, a danno dei lavoratori e della comunità.
È di maggio la denuncia di un cavatore (successivamente minacciato dalla Società Apuana Marmi, impresa per cui lavora) sulle condizioni di lavoro in cava: “ritmi di lavoro massacranti,
gli straordinari, la stanchezza. E poi le condizioni climatiche: il freddo, la pioggia..” (Il Tirreno Massa-Carrara, 08/05/16). Ma
anche con ghiaccio e temperature altissime si continua a lavorare in cava. La produzione non si può fermare, costi quel costi, anche la vita.
Di fronte a questo continuo sacrificio umano, i sindacati confederali portano avanti la propria battaglia a difesa delle imprese! I sindacati come Fillea-Cgil, Cisl e Uil, parte
del Fondo Marmi insieme ai padroni delle Apuane, da una parte difendono a spada tratta l’escavazione selvaggia in nome di un’occupazione sempre più ridotta e in condizioni di lavoro estreme, dall’altra ignorano le istanze provenienti dai cavatori in tema di sicurezza, rendendosi complici di questo sistema di morte
e distruzione. Alla morte di Carlo Morelli, nel mese di maggio, il segretario di Fillea-Cgil si fa portavoce dell’offerta da parte del Fondo Marmi di una quota di cinquemila euro come risarcimento alla famiglia per la perdita di Carlo. Cinquemila euro, briciole per le imprese del marmo che fatturano importi abnormi, ma che servono a pacificare quelle famiglie per le quali intentare una causa giudiziaria contro i giganti del marmo sarebbe solo uno “spreco” di energie, denaro e tempo. Una partita persa in partenza.
Montagne sbriciolate per produrre carbonato di calcio (di cui si contano 279 usi, quasi tutti inutili), decine di vite sacrificate, alluvioni, tumori, veleni, devastazione ambientale, dissesto idrogeologico, distruzione della biodiversità, indebitamento delle casse comunali, tagli sulle politiche sociali. Ma tutto questo
per chi?
Su queste montagne, mentre qualcuno ci lascia il sangue, a gonfiarsi sono solo le tasche dei padroni di cava. Si gonfiano ogni giorno, ogni mese, ogni anno sempre di più. I sindacati fanno leva sulla disoccupazione e la depressione economica che interessa il territorio per rendere accettabili condizioni di lavoro estreme
e insicure.
Ma questo gioco qualcuno l’ha capito e ha scelto di non versare più sangue per il profitto dei padroni, di non accettare questo continuo ricatto e di delegittimare la rappresentanza sindacale, sempre più incline al volere delle imprese. Davanti alle continue morti in cava, qualcuno si è chiesto a cosa servisse tutto quel
marmo, se non a costruire le loro stesse lapidi.
Ne è nata la scelta di rompere quel silenzio e di scrollarsi di dosso la paura di essere ricattati. Nel maggio 2016 centinaia di cavatori
hanno scelto di unirsi e di autorganizzarsi nella Lega dei Cavatori, strappando le tessere dei sindacati confederali, che sino a quel momento avevano fatto il gioco dei proprietari di cava, e scegliendo di autorappresentarsi.
Uniti, hanno scelto di combattere il padrone, il vero nemico, e di tornare a parlare con l’altra parte di città che lotta contro lo sfruttamento devastante delle Apuane. Questo ha significato invertire il meccanismo costantemente alimentato dal capitalismo, che quotidianamente pone in contrasto i movimenti ambientalisti con i lavoratori, ridefinendo le lotte sul territorio.
Hanno capito che il conflitto non deve essere tra ambiente e lavoro, ma tra oppressi e oppressori!