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Una città di ghetti e salotti

…piazza della Stazione, via Mascagni, rotatoria dell’Ordine di San Sepolcro, via Pellico, largo Padri della Costituzione, piazza Sant’Antonio, via Mazzini, via Zandonai, via D’Azeglio (da via Zandonai a piazza Vittorio Emanuele II), piazza Vittorio Emanuele II, via Benedetto Croce (da piazza Vittorio Emanuele II a via Queirolo), via Queirolo, viale Bonaini (da via Queirolo a via Colombo), via Colombo, via Corridoni (da via Colombo a piazza della Stazione). Sono da considerarsi all’interno dell’area anche la Galleria A e B di viale Gramsci ed i loggiati presenti nella piazza della Stazione, viale Gramsci, piazza Vittorio Emanuele II, via Corridoni (da piazza della Stazione a via Puccini), piazza Duomo, piazza Arcivescovado, piazza Manin, largo Cocco Griffi, via Cammeo, via Roma (da piazza Duomo a via Savi), via Santa Maria (da piazza Arcivescovado a piazza Cavallotti), via Cardinale Maffi (da piazza Duomo a via San Ranierino), parcheggio di piazza Santa Caterina, parcheggio di piazza Carrara, parcheggio di piazza Sant’Antonio, Corso Italia, piazza XX Settembre, Ponte di Mezzo, piazza Garibaldi, Borgo Stretto, via Oberdan (Borgo Largo)…

La città non è del Sindaco, del Prefetto o del Questore. Tanto meno è dei commercianti, dell’aeroporto, delle caserme o dei b&b. Non è dell’Università, della Normale, del Sant’Anna, del CNR o dell’Ospedale. La città è di chi ci vive, chi ci studia o ci viene per lavorare. La città è anche di chi è nato da qualche altra parte.

Il “Decreto Minniti”, col suo famigerato “daspo urbano”, permette ai Sindaci di decidere che ci siano strade, vicoli e piazze della città vietate. Luoghi dove alcune categorie di persone non possono, non devono mettere piede.

Il Comune divide la città in strade, vicoli e piazze, in ghetti e salotti. Di strade, vicoli e piazze che devono essere “decorose” e di altre che possono anche restare nel degrado.

Stanno provando a trasformare una città in una specie di labirinto delirante: in questa piazza è proibito bere, in questa strada non ci possono essere mendicanti e in questo vicolo non è consentita la presenza di persone non nate in questo comune.

I giornali e le tv locali, fomentatori di paure e fabbricatori seriali di notizie false, contribuiscono in modo decisivo alla creazione e all’esagerazione di minacce alla sicurezza e al decoro che stanno solo nelle loro teste. Complici della trasformazione finale di una città in un cimitero che alla fine potrà essere abitata solo da morti viventi.

Vogliono una città per pochi, una città a misura dei privilegiati e di chi crede di esserlo, una città che esclude chi non ha soldi, lavoro o non la pensa come loro.

Opporsi, a ogni livello e con ogni mezzo necessario, al “Decreto Minniti” e alle sue applicazioni locali.

Rivendicare, con atti concreti, che la città è di tutti e per tutte e non per pochi.

Chi conosce gli altri è sapiente, chi conosce se stesso è illuminato

La voglia di scrivere questo articolo nasce da una chiacchierata con un mio caro amico riguardo questioni e correlati miti come quello della propria identità e della stima di essa. Spesso ho sentito persone parlare della loro identità come di un qualcosa caratterizzato dai rapporti interpersonali e che in base a ciò definiscono la propria stima come un equilibrio tra le visioni che le persone hanno di esse. Questo porta anche ad un’altra tematica che per ora accennerò: dedicarsi più agli altri, intendendo il dedicarsi nel senso più ampio possibile, che a se stessi poiché sarà il riconoscimento degli altri verso noi stessi che aumenterà la considerazione che abbiamo di noi, insomma quella forma celata di egoismo conosciuta e venerata come altruismo. Dovremmo capire che se da un lato è vero che la nostra identità si costruisce e si modifica nel tempo secondo le nostre relazioni con il mondo esterno (d’altronde siamo animali sociali) è fondamentale capire che dall’altro lato siamo noi, primi tra tutti, a decidere quali siano le nostre interazioni con ciò che è al di fuori di noi. Tale passaggio di punto di vista, anche abbastanza semplice, fornisce chiavi di lettura di noi stessi molto più consapevoli, responsabilizzanti, oneste, benefiche e fruttuose per il rapporto con il mondo interiore e quello esteriore. Una volta capito che la nostra identità e la stima che abbiamo di essa è quindi in primis conseguenza della conoscenza di se stessi e delle relative scelte possiamo fare finalmente a meno di quell’odioso merito sociale che in tanti cercano cioè l’essere riconosciuti come altruisti e quindi, quasi come ci fosse un legame logicamente necessario, “brave persone”. Iniziamo invece a rivendicare di essere egoisti, dei sani egoisti, di pensare prima a noi, a quello che vogliamo, che ci piace e anche che ci conviene! Non perseguitiamo più il desiderio di essere persone eticamente corrette e non dichiariamo più di esserlo appena ci facciamo o ci fanno i complimenti per un azione moralmente bella, rendiamoci conto che non c’è nulla di sbagliato nel preferire se stessi agli altri anche al costo di ferire questi altri. Non voglio però, dicendo ciò, incoraggiare l’oppressione delle volontà altrui, voglio solo dire che non esiste l’io con la propria volontà e gli altri, ma esiste l’io che si deve relazionare con tanti altri io e quindi tante volontà individuali, non una una volontà altrui cioè una somma di esse.

Infine non consideriamo l’identità come qualcosa da ricercare dentro se stessi e una volta raggiunta come non pensiamola stabile, ormai costituita e da difendere a qualsiasi costo, disfacciamo del mito di essa e della sua continua ricerca: cosa vuol dire trovare la propria identità? E perderla? Questa è una domanda che mi pongo, a cui mi piacerebbe arrivassero proposte di risposte da chiunque ne avesse: la mia proposta per ora è di conoscere se stessi e di perdersi nel flusso dei suoi mutamenti lungo il tempo, facendo meno del concetto di identità come qualcosa di nascosto e immutabile che dobbiamo trovare e preservare.

No time for dreaming

Catalogna libera ? Catalogna non libera? Io penso che…è ora di mettersi in forma e riprendere le insane abitudini alimentari e musicali con i consigli dello “chef” meno in forma del momento! Prima di passare alla nostra rubrica di cucina ,e metterci sui fornelli insieme e inveire sullo stato di polizia attuale, prendete il vostro pc e rilassatevi con l’ultimo album di Charles Bradley uscito nel 2016 dal nome “Changes”.  Il disco funky/ soul  di questo fantastico cantautore vi stupirà e sarà adatto al vostro stato d’anima. Ho scelto questo album perché Bradley ha lasciato questa terra da poche settimane ed è stato uno dei tanti artisti che per me ha rappresentato un sacco di cose. “La vera capacità dell’uomo non è solo  quella di sognare, ma è la perseverazione nel sogno” , questa è una frase che mi dice sempre mio padre e un po’ rappresenta quello che era Charles Bradley, un essere umano che non hai mai smesso di sognare e che è riuscito dopo 30 anni da senza tetto  a realizzare il suo sogno e fare un disco all’età di 58 anni; ora mettete play e lasciatevi cullare dalla rabbia, dalle urla e dal sudore di questa fantastica persona.

La ricetta che oggi vi voglio proporre è la “vellutata alla Mariella”, tutte e tutti abbiamo delle persone speciali e la maggior parte dei miei consigli sulla cucina vengono direttamente da un appartamento con delle studentesse e degli studenti  in Via della Pura, laboratorio in affitto  di autogestione e disagi vari ed eventuali. Quello che vi serve per questa ricetta sono: broccoli(600 gr), mezzo porro q.b (o come c***o volete voi) , latte di cocco, acqua, sale.

Prendete un mezzo porro, pulitelo e tagliatelo a rondelle (non fate i/le tamarri/e non molto grossolani)  lavate i broccoli in acqua fredda poi tagliate le “teste”  ,pelate il gambo e vi ricordo che dovete togliere con il coltello o  con un pela patate  la “buccia” esterna perché è molto dura e ha dei fili fastidiosi che rimangono anche dopo la frullatura. Ora che avete i due elementi principali della vellutata ,prendete una padella in terra cotta alta ( se non l’avete usate una padella alta normale) e mettete l’olio a riscaldare per non molto mi raccomando! Se l’olio è pronto metteteci  il porro tagliato a rondelle a lasciate che il soffritto faccia il suo corso, quando il porro vi sembra pronto aggiungete nella padella i broccoli e un mezzo bicchiere d’acqua e non lasciate il porro e i broccoli al loro infame destino, aggiungete acqua se vedete che state per bruciare tutto e girate di tanto in tanto.  Dopo circa 20 minuti  prendete il latte di cocco(chiedetelo al minimarket quello dove vi e ci beviamo le peroni)  e aggiungetelo al tutto. A questo punto, con tutto l’odio che ci vuole, prendete lo strumento del demonio,frullate tutto e salate a vostro piacimento. Qua viene la parte soggettiva della faccenda , io vi suggerisco di far evaporare tutta l’acqua che è rimasta per rendere il meno possibile la vellutata liquida, ma i gusti sono molto personali. La vellutata è pronta! Buon odio a tutt@!

INTERVISTA AL COLLETTIVO ARTAUD

Parte 1

Pazz*, matt* da legare, fuori di testa, malat* mental*, celebroles*,  folli, isteriche, tont*,schizzat*sono tanti  modi in cui sono rappresentate le fragilità dell’animo umano. Questa intervista al collettivo antipischiatrico Antonin Artaud di Pisa vuole approfondire le motivazioni che hanno spinto la nascita di questo gruppo e perché continuano a tenere viva l’esigenza di portare avanti questo percorso politico e sociale. Riportiamo di seguito alcuni stralci dell’intervista che verrà divisa e presentata in due parti. La prima di questo numero e la seconda nel seguente.

“in quale contesto storico e quali motivazioni hanno portato la nascita del collettivo?”

Il collettivo nasce 12 anni fa dopo una riflessione scaturita all’interno dell’osservatorio anti proibizionista di Pisa risentendo anche delle influenze di gruppi analoghi presenti a Milano e Firenze, in risposta alla realtà psichiatrica del territorio (Servizio Psichiatrico di Diagnosi e Cura  di Pisa, Ospedale Psichiatrico Giudiziario di Montelupo, équipe dello psichiatra Cassano).La riflessione che ha dato adito all’antipsichiatria ,nel collettivo antiproibizionista, riguarda la  consapevolezza sul ruolo normativo dello stato e nella contrapposizione tra droghe legali (psicofarmaci) e droghe illegali il cui consumo è demonizzato e punito.I fondatori del collettivo, molti dei quali arricchiti da esperienze politiche e personali, hanno sentito l’esigenza di dare voce e forma soprattutto a chi viene stigmatizzato come folle e viene messo a tacere. Tra gli obiettivi iniziali che il gruppo si pone vi è una critica alle pratiche repressive che si perpetuano quotidianamente con gli abusi all’interno dei luoghi della psichiatria. Il collettivo intende far luce sul ruolo delle multinazionali farmaceutiche  che aumentano i loro profitti attraverso lo spaccio globale di “pillole” infatti  è stata riscontrata nell’ultima edizione del Manuale Diagnostico dei disturbi mentali(DSM V) la presenza del 56% dei membri della commissione strettamente collegati con l’industria del farmaco. Sin dalle battute inziali il collettivo ha sostenuto e seguito casi concreti di abusi psichiatrici, su minori e adulti, intervenendo legalmente e politicamente .La battaglia politica del collettivo affronta problemi che potenzialmente toccano la quotidianità di tutte e tutti noi, come l’obbligo di cura(Trattamento sanitario obbligatorio) e l’inefficienza dei servizi psichiatrici che devono accompagnare una persona con una determinata fragilità. La risposta è sempre quella di vedere come oggetto la persona “malata” e di curarla con approcci psedo-scientifici  alla malattia senza vedere le sue reali problematiche legate al suo stigma sociale, che vanno dalla non socializzazione e alle difficoltà di trovare una stabilità, e alle famiglie abbandonate a loro stesse senza nessun tipo di supporto.

“quali eventi hanno segnato la storia del collettivo, dalla sua nascita a oggi?

Nel 2007 il collettivo attiva una linea rivolta a persone che vogliono raccontare o denunciare abusi da parte della psichiatria. Il progetto del telefono si pone il duplice obiettivo politico di denuncia e di supporto umano e legale. Si tratta di un telefono mobile a differenza dei numerosi telefono fissi gestiti da altri collettivi, il supporto è attivo 24/24h e 7 giorni su 7. Un altro passo importante è stata la collaborazione con una Dottoressa antipsi, che è parte attiva  nella gestione di uno sportello di ascolto quindicinale. Sicuramente la stesura del libro “Elettroshock” (Sensibili alle foglie,2014) è stato un punto di svolta importante. Attraverso questo progetto editoriale è stato possibile raccogliere testimonianze dirette di chi è stato vittima di questa pratica e di dare una prospettiva diversa di narrazione, dal punto di vista di chi la subisce(utente) e non di chi la pratica (medico).  Sicuramente questi sono gli eventi che hanno segnato di più la storia del collettivo senza dimenticare però il sostegno e la collaborazione con diversi avvocati e  collettivi antipsichiatrici nazionali, compagne e compagni del territorio pisano e non.

[…] segue nel prossimo numero salvo casi di TSO alla redazione di LUCCIOLA

Il mio nemico

Non è il fascista

Associamo questa etichetta con troppa facilità, marchiando come con un mirino chi crediamo seguire (più o meno convintamente) idee che già di per sé sono molto confuse. Ne abbiamo bisogno: identificare i nemici è sempre cosa buona per un esercito in guerra. Ma io non faccio parte di un esercito e questa non è la mia guerra. Voglio capire le ragione che spingono un ragazzo di venti anni ad aderire a formazioni di estrema destra, a fare ronde, a odiare la società in cui vive per seguire modelli semplicistici in cui immaginare di poter approdare a uno stile di vita che evidentemente non possiede e che deve difendere da chiunque creda possa impedirgli di sognarlo. Non possono essere le stesse di chi quelle idee le propaganda e che soffiando sul fuoco del disagio sociale ed economico e della paura ne cavalca gli effetti del consenso popolare.
Se la causa dell’adesione a retrograde (quanto funzionali) forse di infantile nazionalismo sta in quel disagio il mio nemico è la causa del disagio, non il suo effetto.
Non picchiando il fascisti per strada eliminerò le cause del suo esserci, non facendo contro ronde, non dichiarando guerre a idee che mi fanno dimenticare le reali cause di quelle idee e della loro mistificazione di chi le usa come un burattinaio sorridendo anche un po’…

Comasco Comaschi: Un martire anarchico

Nasce a Cascina (Pi) il 27 ottobre 1895 da Ippolito e Virginia Bacciardi, maestro d’arte ed ebanista.
Cascina a quell’epoca basava la propria economia su una folta presenza di piccoli artigiani del
legno. In questa cittadina, ma specialmente sotto la guida del padre Ippolito, già militante anarchico
Comasco matura quelle idee libertarie che lo portano ad un forte impegno sociale. E’ tra i promotori
della locale sezione della Pubblica Assistenza, stimato insegnate della Scuola d’Arte di Cascina ,
nonché abile artigiano ebanista.
Il gruppo libertario di Cascina guidato da Comasco era molto attivo, come ricordano alcuni militanti
comunisti (come Ideale Guelfi, volontario nella guerra di Spagna) che, in una testimonianza
rilasciata nel 1980, dichiarano che nel primo dopoguerra a Cascina “gli anarchici erano molto forti”
e che “Umanità Nova” era “l’unica stampa di sinistra diffusa”.
Il Comaschi nel 1921, durante la cerimonia di fondazione del fascio locale, interviene fermamente
per far sentire la voce dissenziente degli anarchici e degli antifascisti locali sventolando la bandiera
nera. Questo segna la sua prematura fine. La sera del 19 marzo 1922, dopo aver partecipato ad una
riunione in località Marciana, mentre fa ritorno a casa in calesse, accompagnato da altri tre
anarchici viene atteso da una squadraccia nel presso del Fosso Vecchio. Dopo una strenua ma
inutile lotta cade sotto i loro colpi.
I funerali tenutisi il 21 marzo 1922 sono stati importanti e sentiti dalla cittadinanza, bandiere nere in
testa, si sollevava un’esplicita sfida al fascismo con un corte funebre di un chilometro.

Notizie tratte da l’Enciclopedia degli Anarchici Italiani.

CAZZO NERO, CAZZO BIANCO. LA SAGA.

Tratto da alcune delle molte (troppe) storie vere.
Il 25 agosto la notizia di uno stupro commesso a Rimini da quattro immigrati su una donna polacca domina la cronaca italiana.
Su ogni mezzo, tv, giornali, social network, si levano voci di indignazione. Voci di condanna contro questi negri che

vengono qui e non accettano i nostri valori, tra cui il rispetto delle donne. Forza Nuova, riprendendo una stampa primo-
novecentesca in cui un nero spoglia una donna bianca, si erige a difensore delle donne, delle “loro” donne con lo slogan

“Difendila dai nuovi invasori. Potrebbe essere tua madre, tua moglie, tua sorella, tua figlia”[1].
Il 7 settembre giunge la notizia dello stupro commesso a Firenze da due carabinieri su due ragazze
statunitensi che studiavano nel capoluogo toscano. Si leva qualche voce di condanna dalle istituzioni, ma
sempre col beneficio del dubbio (bisogna vedere se quel che dicono le due ragazze è vero), una
“condanna” tenue più volta a difendere la dignità della divisa che per sincera indignazione. Nessuno si
esprime troppo, alla fine è necessario fare ulteriori verifiche per stabilire la veridicità di quanto
denunciato dalle due donne.
La narrazione mediatica di questi due eventi, in egual modo da condannare, è totalmente diversa e
riproduce esclusivamente una mentalità violenta.
Da una parte nel racconto mediatico degli stupri di Rimini si tralascia quasi del tutto, se non per brevi
momenti, il fatto che ad essere stuprata sia anche una donna transessuale. Di lei si parla poco e niente,
forse perché meno capace di muovere la nostra compassione e di aizzare il nostro odio verso gli
immigrati. Alla fine per una trans, per di più prostituta, la nostra empatia non può essere particolarmente
forte.
D’altra parte, accanto a questa invisibilizzazione avvenuta sulla donna trans violentata, si scatena una
reazione che sa più di risentimento nazional-popolare che di condanna alle violenze commesse sulle due
donne. Forza Nuova, insieme a molti altri, non perde occasione per strumentalizzare questo episodio in
chiave razzista associando la tendenza allo stupro ad una sorta di predisposizione naturale del nero. Ma
l’importante è essere propositivi e così Forza Nuova si propone di fare delle ronde per difendere le
“nostre” donne perché, ce lo ricordano, quella donna potrebbe essere “tua” sorella, “tua” madre, “tua”
figlia. Quello che ci dice Forza Nuova è che una donna va difesa perché è una “tua” proprietà, perché è un
tuo possesso, e non perché è un essere umano. E ci dice che la nostra difesa spetta ai nostri uomini, così
legittimando e riproducendo l’ideologia del dominio maschile che sta alla base della violenza sulle donne.
Tutt’altro tipo di risposte scatena invece lo stupro di Firenze. Poche ore dopo la violenza subita dalle due
donne, iniziano a circolare notizie volte a questionare la versione ufficiale. Non si è trattato di stupro, loro
erano consenzienti, erano ubriache (e quindi? Io se mi ubriaco al massimo mi aspetto un mal di testa il
giorno dopo non uno stupro), ma perché hanno accettato il passaggio dai carabinieri, si sono inventate
tutto, e, infine, la grande rivelazione: le due donne statunitensi hanno stipulato un’assicurazione contro lo
stupro. Deduzione seguente: si sono fatte stuprare o fingono di esserle state per ottenere una ricompensa
economica! La notizia è stata smentita nella stessa giornata, ma è indicativa di come, quando a stuprare è
un uomo bianco (in divisa poi!), si cerchi di trovare qualcosa attraverso cui colpevolizzare la donna per
quanto avvenuto, per far ricadere su di lei la responsabilità!
Ma la trafila di proclami aberranti non finisce qui: prendono parola le varie istituzioni e il sindaco di Firenze, Dario Nardella,
che non perde occasione per sfoggiare una bella paternale a queste studentesse americane, che devono capire una volta per
tutte che Firenze non è la città dello sballo[2]! Il dito viene puntato non contro gli aguzzini, ma contro le vittime.
Se nel caso di Rimini i media hanno puntato il dito contro gli stupratori, più per la nazionalità degli
uomini che per il fatto stesso, nel caso di Firenze le stesse fonti mediatiche risaltavano le parole dei
carabinieri accusati i quali si discolpavano e si ritenevano sconvolti.
Loro sconvolti!
Poverini!
Dando però così spazio alle loro voci, i media hanno contribuito a stimolare un senso di comprensione,
compassione ed empatia verso i carabinieri piuttosto che verso le ragazze stuprate, colpevoli d’altra parte
di aver bevuto. Gran parte dell’opinione pubblica, prima indignata per lo stupro avvenuto a Rimini e alla
ricerca di dure soluzioni contro coloro che si rendono protagonisti di tali violenze, questa volta si esprime
in termini ben più moderati, lasciando ad ogni modo ad altri l’onere di verificare la veridicità della
denuncia e di esprimere eventuali condanne. Ma soprattutto si chiede di non fare di tutta l’erba un fascio,
di non infangare la divisa, la nobile arma dei Carabinieri, per l’errore commesso da due persone, dalle

cosiddette mele marce.
Che dire? Tutto ciò si commenta da solo. Però è bene chiarire una cosa: non bisogna fare di tutta l’erba un fascio, in nessun
caso. E questo ragionamento non esclude nessun gruppo, che siano Carabinieri o immigrati. Gli stupri avvengono in ogni
paese e cultura. Avvengono su donne di ogni età, provenienza, estrazione sociale[3]. E a commetterli sono solo determinate
persone: gli uomini maschilisti, indipendentemente dalla loro provenienza. Questo perché essendo la società, tutta, in
ogni parte del mondo, fondata sul patriarcato -quindi sul dominio dell’uomo sulla donna – non potrebbe essere
diversamente!
Tuttavia questa logica dominante non viene mai messa in discussione, preferendo gestire il dibattito
attraverso un doppiopesismo tanto becero quanto deviante rispetto all’obiettivo di porre fine alla violenza
sulle donne.
Una narrazione quotidiana che ci ricorda che ci sono stupri di serie A commessi da cazzi neri e stupri di
serie B di cui si sminuisce la gravità, si mette in dubbio la veridicità, si colpevolizza la donna, si
comprende il gesto dell’uomo o, se a commetterlo sono maschi sotto i 18 anni, è solo una bambinata. Di
questa categoria fanno parte gli stupri commessi da cazzi bianchi, che siano in divisa, in famiglia, amici,
estranei o qualunque altra cosa purché appunto abbiano il cazzo bianco. Una retorica contraddittoria, che
non ci aiuta a comprendere la violenza maschile né a sradricarla, ma risulta strumentale a coloro che
vogliono imporci le ronde fasciste, a legittimare securitarismo e militarismo.Un problema che non è
episodico ma sistemico e strutturale nella nostra società non può essere certo abbattuto installando
telecamere e aumentando presidi militari per le strade, ma solo scegliendo di estirpare le radici culturali
della violenza maschile, di cui femminicidi e stupri sono “solo” la punta dell’iceberg.
Uno stupro è sempre uno stupro! E la radice è solo una: il patriarcato!

[1]http://www.lastampa.it/2017/09/02/italia/cronache/manifesto-choc-di-forza-nuova-sui-migranti-stupratori-polemica-
zWzaDrePMapOiFh7cAn42I/pagina.html

[2]http://www.ilpost.it/2017/09/10/nardella-firenze-studenti-americani/
[3]https://www.internazionale.it/reportage/annalisa-camilli/2017/09/26/stupri-violenza-donne

Apriamo quella porta

Questo, urlano dalla stiva, è il settimo numero di “Lucciola”. Sette, come i vizi capitali, ce li abbiamo. Tutti. Ne abbiamo anche di migliori. Per esempio abbiamo il vizio di continuare a pensare con le nostre teste, anche quando quelli intorno a noi pensano con la testa di qualcun altro. E guardandoci intorno ci rendiamo conto che da troppo tempo certe cose non cambiano. Giornali, tv, Internet, non fanno altro che riciclare le solite notizie sui problemi esistenti e partiti e governi non fanno altro che proporre soluzioni che non risolvono. Un po’ come qualcuno che davanti a una porta chiusa provi ad aprirla con la chiave sbagliata una, due… tante volte. Troppe. La porta resta chiusa a chi cerca un reddito per vivere, a chi scappa dalla miseria o dalla guerra, a chi chiede più rispetto, a chi vuole più libertà e meno divieti, a chi non è disposto a barattare la propria vita nel mercato globale. Continua la lettura di Apriamo quella porta